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SWEDEN ROCK FESTIVAL 2011 Sölvesborg, Svezia 8-11 Giugno 2011 torna all'inzio < torna alla pagina precedente vai alla pagina successiva >
Il nostro risveglio al sabato mattino è allietato da una giornata finalmente ben soleggiata e discretamente calda. Peccato che, dopo le scorpacciate dei giorni precedenti, il programma non sia altrettanto scoppiettante. Si parte un po' in sordina, almeno per i nostri gusti, a cominciare dall'opening act dei Raubtier, descritti come la risposta svedese ai Rammstein, sicuramente con tono esagerati. In più, lungo quest’ultima giornata di Festival, dobbiamo saper centellinare le nostre scarse energie rimasteci, per cui iniziamo “sul serio” solo a mezzodì con la canadese LEE AARON. Nonostante la metal queen goda ancora di un’ottima forma fisica, è ben lontano il ricordo dei suoi momenti d'oro e più metallici, soprattutto se andiamo ad analizzare la sua proposta musicale, virata verso sonorità pop e jazz già negli anni ‘90. Il suo rock attuale, un po’ alleggerito e ammosciato nel tempo, le è comunque valso il gettone di convocazione allo SRF. La partenza ci conforta e sembra dissipare i nostri dubbi, quando con l’ottima "Powerline", la cantante canadese si scatena sulle assi del Rock Stage. Purtroppo, piano a piano, lo show sterza decisamente sulle tonalità “meno rock” della sua discografia, il pubblico sembra risentirne ed appare un bel po' raffreddato. Ci si riprende nel finale, quando si torna sui retti binari, anche se "Metal Queen" è riproposta in una versione un po' troppo alleggerita e riarrangiata per scuotere seriamente l’headbanging dei presenti. Peccato perché la voce è sempre ben presente, lei pare in gran spolvero e la band alle sue spalle non è affatto male...
Ben altra aria quella che si respira sull'altro lato dell'arena dove ci si può godere un po' di sano thrash con i DESTRUCTION. Il trio tedesco scatena tutta la potenza di fuoco sopra allo Sweden Stage, chiedendo a più riprese un po' di pogo, ma da queste parti le regole sono molto ferree e solo poche bands nella storia del festival hanno potuto scatenarne uno impunemente... Il pubblico non è numerosissimo, sarà anche a causa dell'ora e delle condizioni fisiche dei più (dopo giorni di festa è dura la levataccia!), ma è comunque partecipe. Sessanta minuti che scorrono via velocemente andando a pescare qua e là nella loro venticinquennale carriera, con alcuni estratti dal loro ultimo demolente album “Day of Reckoning”. Una buona opportunità per ripassare un po’ tutta la storia dei leggendari thrasher tedeschi, puntuali e spietati come sempre, soprattutto grazie al solito, gigantesco, Marcel "Schmier" Schirmer.
La prima metà del pomeriggio scorre poi lentamente, all'una e mezza ci sono i The Hooters, godibili con il loro rock semplice e orecchiabile, ma nulla di più, tanto che ci allontaniamo presto dal palco principale, attratti da una birretta e dall'arena soleggiata, ma soprattutto perché è il momento dei MOLLY HATCHET. In questa edizione c'è stata carenza di suoni Southern, presenti in buona quantità in passato, con alcune delle migliori esibizioni in assoluto, tra le più seguite di tutto il festival. Ogni edizione, è risaputo, è diversa dall'altra, così per quest’anno dobbiamo accontentarci quasi esclusivamente della band di Jacksonville. Il pubblico non è certo di quelli memorabili, sarà forse a causa dell'effetto "deja-vù"; i Molly Hatchet saranno pur divertenti, solidi e pieni di energia ma sono in effetti sempre gli stessi, non offrono particolari sorprese nella loro “regolarità”. Se poi, ad ogni pausa ed intermezzo, il singer americano Phil McCormack ci mette pure del suo, esclamando sempre "Hell Yeah"… Gli statunitensi vanno invece sul sicuro, con la scelta della scaletta, i classici "Whisky Man" o "Flirtin’ with Disaster" stimolano sempre piacevoli sensazioni, soprattutto dal vivo. Un’unica, breve parentesi viene riservata agli estratti dal loro ultimo, recente, lavoro in studio “Justice”. Gli ANGEL WITCH sono il primo vero lampo di questa giornata. Anche se abbiamo già avuto la fortuna di ammirati più volte durante questi ultimi anni, sono sempre fonte di divertimento soprattutto quelli di noi appartenenti ai “true fans dell'heavy metal”. La band di Kevin Heybourne sta vivendo una seconda giovinezza, e la testimonianza del loro "nuovo" successo è anche la presenza a festival più "generici" ed eclettico come questo. Bill Steer, dei Carcass, è oramai da qualche tempo nella band e supporta perfettamente il biondo leader. Gli inglesi, come di consueto, propongono ad un divertito pubblico, impegnato costantemente in un sano headbanging sotto al palco, un menù quasi interamente incentrato sul loro album omonimo, che, a più di trent'anni di distanza dal debutto, riscuote ancora graditi consensi. La loro popolarità è aumentata pure grazie alla loro presenza su di un gioco per computer "Brütal Legend"! Ma sono le varie "Sorcerers", "Atlantis", "Angel Of Death" o l'immortale inno "Angel Witch" a catturare maggiormente la nostra attenzione e a fare la parte del leone nel loro show. Impossibile non abbandonarsi, non muovere la testa o battere il piedino a ritmo.
Se non fosse per megaschermi, cellulari e i-phone vari, e le inevitabili tracce del tempo ben visibili sui protagonisti, saremmo sicuri d’esser saliti tutti sulla macchina del tempo per tornare indietro di quarant'anni. Ci sono i capostipiti dei Seventies, quegli STYX capaci di miscelare una sorta di progressive con l’Aor e con l’Fm-Rock. Uno dei gruppi più famosi d’America di tutti i tempi, oltre 90 milioni di dischi venduti solo tra la working class statunitense, nonché preziosa fonte di ispirazione per molte di quelle bands sulla cresta dell’onda negli anni ’80. La lista delle loro hits è a dir poco impressionante: "Lady", "Renegade", "Blue Collar Man" “Fooling Yourself (The Angry Young Man)” che costituiscono, ovviamente, l’ossatura principale di tutto lo show odierno. Si presentano sul meritatissimo main stage con una formazione in parte storica: con James Young alle chitarre e Tommy Shaw (l’ex Damn Yankees canterà la conclusiva “Renegade”) e in parte rinnovata : Lawrence Gowan tastiere e voce (su “Queen of Spades” e “Come Sail Away”), e Ricky Phillips al basso (Bad English). Alla batteria quel Todd Suchermann che, quindici anni fa, sostituì uno dei fratelli fondatori della band di Chicago (John Panozzo) morto di cirrosi epatica. E sul palco, verso il finale, pure la sorprendente presenza dell’altro fratello Chuck Panozzo, il bassista originale, che ultimamente suona solo pochi pezzi nei concerti poiché malato di Aids… Oltre a questa piccola divagazione E.R. c’è da notare ed apprezzare quanto la set list, pur spaziando nella loro innumerevole discografia, si sia incentrata sui loro platter più famosi "The Grand Illusion” e “Piece of Eight" (di fine anni 70’) dimostrando tutta la gran classe di questo dream team e regalando un pomeriggio da ricordare ai loro numerosi fan. Tra quest’ultimi, non abbiamo scorto Patty Pravo, che trent’anni fa ne copiava spudoratamente i successi (“Miss America e “Come Sail Away”) cambiandone solo i testi e trasformando il tutto in una schifezza pop italica. Grazie allo Sweden, noi abbiamo potuto godere degli “originals”…
Una veloce corsa ci porta anche sotto al piccolo Zeppelin, dove uno show di ben altro tenore si tiene quasi in contemporanea: tocca ai black death metallers NIFELHEIM tenere impegnate le anime più dure e pure, in contrasto con il momento più classico e soft nella vicina arena principale. Il sole battente che investe il palco non è certo ideale per il loro genere e per la riuscita scenica del concerto, penalizzando il loro look poco solare, fra borchie lunghe e taglienti, catene e folate intense e taglia gambe. Il pubblico apprezza e solo a stento riesce a resistere alla deflagrazione che li coinvolge nel mezzo della collinetta del piccolo palco dello Sweden: che energia! La coppia Tyrant/Hellbutcher si era già vista in azione mercoledì sera nello show della superband Necronaut, ma oggi la scena è dedicata tutta a loro. Sono in giro da più di vent'anni, ogni tanto giocano d'esperienza, ma il loro show libero da compromessi è preciso e allo stesso tempo devastante. Se ancora qualche bibbia era rimasta a terra dopo il concerto degli Stryper, dev'essersi sicuramente sciolta di fronte a questo show. Spietatamente spietati!
Si torna a climi ben più pacati e classici, quasi a glorificare lo spirito ed il nome di questo festival con un altro appuntamento con la storia: i KANSAS. I leggendari rockers statunitensi (chissà di quale Stato saranno originari?), pionieri di quella miscela esplosiva che mischiava assieme generi, che oggi potremmo etichettare sotto prog, symphonic e hard rock, ebbero gran successo già nel 1976 con il loro epocale “Leftoverture” che stasera avremmo la fortuna di ascoltare per buonissima parte! La line-up è per la quasi totalità quella originaria, di un tempo, Steve Walsh canta sempre divinamente, il suono che ci avvolge sembra perfetto. Anche se ci vuole un po' per rompere il ghiaccio, in quanto l'inizio è legato ad alcuni pezzi strumentali, “Magnum Opus” e “Musicatto (risalente all’era Steve Morse) con i quali Billy Greer, Richard Williams e compagni danno dimostrazione di gran classe nelle loro intricate melodie, che chissà quante bands e musicisti avranno influenzato in tutti questi anni. Immancabili i loro storici classici, "Miracles Out Of Nowhere", "Icarus" ma è sulla conclusiva "Carry On Wayward Son" (tra le migliori 10 canzoni di tutti i tempi!), che chiude degnamente un grande, indimenticabile spettacolo.
Nel frattempo sull'altro lato dell'arena si sta svolgendo il set di una band italiana, anzi la più famosa band italiana, almeno a livello planetario, i RHAPSODY OF FIRE! A quattro anni di distanza da quando gli Eldritch, con scarso successo di pubblico e sul piccolo Gibsonstage, erano approdati qui a Norje, finalmente possiamo vedere un degno rappresentante della nostra penisola di nuovo qui allo Sweden. E fa un certo effetto (ed orgoglio nazionalistico) il trovarsi la collinetta di fronte al palco già bella gremita di vichinghi che a fatica intonano pure gli intro e i pezzi in italiano (“Lamento Eroico” su tutte). Non che mancasse di esperienza già in precedenza, ma a Fabio Lione ha sicuramente giovato la lunga parentesi live con i Kamelot in sostituzione di un altro mito tanto amato qui in Scandinavia (Roy Khan). Il lungo crinito frontman italico oramai sa come dominare le masse, se già si era ben comportato alla corte di Tom Youngblood, figurarsi qui con le “sue” canzoni. Un po’ più freddino, ma sempre osannato dall’audience, appare Luca Turilli, mentre l’altro leader Alex Staropoli sfoggia tutti i muscoli ed i trucioli biondi dalla sua tastiera nelle retrovie. Un set, privo di grosse sorprese, iniziato da “Triumph Or Agony” che ripropone estratti da quasi tutta la discografia dei triestini, incentrata sulla storia di Algalord e la nota saga : “Emerald Sword” (canzone di chiusura). Nessuna anticipazione ci viene offerta dal loro nuovo lavoro "From Chaos to Eternity" di imminente uscita. Lo Sweden Stage si incendia soprattutto nella parte centrale con il classico “Lamento Eroico”. Il pubblico, in estasi, li acclama quasi come fossero beniamini di casa!
In mezzo a cotanta goduria musicale, il piccolo palco "acustico" del Rockklassiker è preda di NICKE BORG, già singer dei Backyard Babies, oggi qui con il suo progetto Homeland. Nicke si è già rifatto una seconda carriera con questo progetto solista acustico, portato anche al grandissimo pubblico nazionale grazie alle qualificazioni svedesi per l'Eurovision Contest, programma TV pressoché oscurato dai nostri palinsesti, ma che qui al Nord equivale, quanto a popolarità e “share”, ad un nostro campionato mondiale di calcio! Il numero dei presenti è importante e adeguato, nonostante la giornata offra di tutto e di più. Il cantante si presenta solo con la sua fida chitarra in un'atmosfera molto più rilassata se paragonata ai giorni in cui, al suo fianco, c'erano Dregen e soci. Si parte proprio da un pezzo dei 'Babies, "Nomadic", seguito più avanti dalla poco conosciuta "Painkiller". Nel mezzo, oltre a qualche pezzo proprio, come la orecchiabile “Leaving Home” (proprio il pezzo proposto all'Eurovision), e anche qualche cover come “Bad Luck” dei Social Distortion, immancabile tributo alla proprie fonti di ispirazione. Un set facilmente dominato da questo consumato professionista, pienamente a suo agio anche in versione acustica, sul piccolo Rockklassiker Stage, preso letteralmente d’assalto dai tanti presenti. Una svolta definitiva nella carriera di Nicke? Chissà, per il momento non possiamo fare altro che goderci quest’oretta molto rilassata e pacata in sua compagnia.
Allo Sweden va un particolarissimo “Nobel della Pace”. Nello stesso giorno riesce nell’impresa di far esibire sullo stesso palco (quello principale), a poche ore di distanza, i protagonisti della lunga telenovela “baruffe in casa Ozzy”. Dopo esser stato cacciato dal Madman (almeno a sua detta) senza troppe spiegazioni, Zakk Wylde sarà qui per riappacificarsi con il suo ex datore di lavoro o gli riserverà una serie di parole tutte uguali che iniziano per “F”?? Nella più delle rosee delle situazioni, ci aspetteremmo da un momento all’altro l’ingresso di Ozzy per uno spettacolare duetto magari nel bis finale (“Stillborn”), ma sarebbe pretendere troppo. Zakk è qui con i suoi BLACK LABEL SOCIETY all’ora di cena, sul palco principale, nulla da dimostrare al nuovo chitarrista greco-scandinavo che l’ha sostituito; poche parole e tanta tanta musica. Tonnellate di potentissimi riff, lunghi solos, per un set molto concreto, acceso da “Bleed For Me”, “Blessed Hellride” (suonata con la dodici corde) e “Suicide Messiah”. Nessuna polemica e nessun accenno alla band che si esibirà qui tra meno di due ore. Let’s the music do the talking.
Nel succulento palinsesto offertoci in prima serata dal Festival, la nostra truppa si spacca in due, chi preferisce gli Hawkind, chi vuole andare sul sicuro e si mette sotto al Rock Stage, dove i THIN LIZZY, o meglio ciò che resta di loro, ci offriranno uno spettacolo già visto, ma sicuramente coinvolgente. Anche se son lontani i loro momenti d'oro. Della band, che raggiunse vette incredibili nella sua fortunata carriera artistica, oggi è rimasto solo uno dei membri fondatori : il batterista Brian Downey. A dargli man forte, l’altro membro di lunga data, il chitarrista Scott Gorham, ed una rinnovata line up di tutto rispetto. Il basso di Marco Mendoza, la voce dell’ex Almighty, Ricky Warwick, le tastiere di Darren Wharton e la chitarra dei Def Leppard, Vivian Campbell (sebbene oggi sia assente e rimpiazzato da Richard Fortus). Se poi una band così prestigiosa può vantare a catalogo, autentici pezzi di storia che devono esser presenti in ogni collezione rock che si rispetti, come "Jailbreak", "Whiskey In The Jar", "The Boys Are Back In Town" "Waiting For The Alibi", "Black Rose" il successo è assicurato. Il raffinato pubblico dello Sweden risponde alla grande tributando loro un'accoglienza di primordine, lontana anni luce da quella scarsa e poco rumorosa, riservata agli irlandesi non più tardi di quattro anni orsono, sempre qui allo SRF. Warwick non sarà Phill Lynott ma dimostra di esser carismatico e frontman navigato quanto basta e contribuisce a rendere la loro esibizione una delle migliori del Festival. Capitolo a parte lo merita la chicca della serata "Killer On The Loose" (esclusa da secoli dalle scalette “live”), l’ennesimo nostalgico tuffo nel passato che almeno per un’ora e mezza ci ha fatto rivivere il ricordo di questa band leggendaria.
Qualcuno di noi, nel frattempo, è riuscito pure a fare una veloce divagazione, durante la curiosa esibizione unplugged dei RAGE. I tedeschi si trovano stasera in una situazione alquanto bizzarra, ma dimostrano di saperci fare e riescono a regalare una certa energia anche in questa loro innaturale occasione, in cui sono accompagnati sul palco anche da una giovanissima guest singer, Charlotte Klauser, impegnata anche con il suo violino e chitarra. Forse, una posizione in un momento meno sovraffollato di esibizioni, sarebbe stata maggiormente gradita dal grande pubblico dello Sweden Rock che avrebbe assistito in numero ben superiore, agli sforzi di Peavy Wagner e soci. Peccato che anche noi, non si riesca a seguire tutto il loro set, limitando la nostra presenza ai soli pezzi conclusivi (il particolare jam di “Don’t Fear The Winter” e “Higher Than The Sky”), prima di tornare a focalizzare la nostra attenzione sui due palchi più grandi.
Nel frattempo qualcun'altro ha scelto l'altro lato dell'arena per un evento abbastanza raro, quello degli HAWKIND. La nostra curiosità iniziale è stata alimentata anche dalle pagine scritte su questa folle band nella divertente biografia di Lemmy, che ci siamo divorati, prima di arrivare qui in Svezia. Il pubblico invece non è proprio numerosissimo, forse il nome di "culto" è troppo di nicchia anche per il colto pubblico svedese! Psichedelici, inusuali e fuori da ogni tempo, con effetti sonori e scenici di prim’ordine non hanno difficoltà a far presa immediatamente sugli ascoltatori. Anche se non è semplice entrare nella loro lunghezza d’onda e farsi trascinare nei Seventies, nonché riuscire a capire tutto quello che sta accadendo sul palco, fra bassi (due), chitarre (due), tastiere ed alcuni modernissimi laptop. Ad incrementare l’aurea di mistero, ci sono pure due ballerine mascherate. Lo show risulta ben riuscito ed assolutamente sorprendente, dispensando tonnellate di energia, onestamente non ci saremmo aspettati di più. Restiamo pertanto attaccati alle transenne fino all'ultimissima “Silver Machine”, sembra pure che gli Hawkind non vogliano più abbandonare il palco. Facciamo appena in tempo a goderci i fuochi d’artificio che in lontananza stanno dando inizio alle celebrazioni dei vent'anni di Sweden Rock.
Una folla incredibile si è assiepata ai piedi del Festival stage. Facciamo molta fatica a raggiungere le prime file, “impresa” che c’era risultata molto più agevole, nei giorni precedenti. Il pubblico, abbastanza freddino per buona parte della giornata, si direbbe esser qui quasi esclusivamente, per lui, il Madman OZZY OSBOURNE! Curiosità unita ad una buona dose di scetticismo sono d'obbligo in questi casi, ma alla fine il vincitore del festival è sicuramente lui! Nel pomeriggio sotto al tendone stampa era già serpeggiato un certo malumore tra gli addetti al lavoro, alla notizia che il suo management aveva accettato nel photopit solo un esclusivo manipolo di fotografi, escludendo la maggior parte dei giornalisti a seguito (noi compresi), proprio nel momento culmine dell’intera manifestazione! La nostra profonda delusione è stata sostituita da grasse risate subìto dopo i primi minuti di show. E’ noto quanto Ozzy si diverta a prendere a secchiate d’acqua i suoi fan, ma mai e poi mai ci saremmo aspettati di vederlo in un’improbabile versione da “pompiere”. Durante “Suicide Solution” si è divertito ad inondare con un idrante (!) tutti quelli che stavano nelle sue vicinanze, inclusi tutti i fotografi “raccomandati”, ricoprendoli di una massa infinita di schiuma mista ad acqua… Oltre a gioire per la nostra apparecchiatura fotografica scampata a questo inatteso e pericolosissimo fuori programma, ci ha rallegrato pure il fatto che si sia presentato sul palco in perfetto orario (ancora memori che l'anno scorso, Axl Rose decise di arrivare in elicottero con un ritardo che oltrepassava l'ora di attesa, con i fans sotto la pioggia) chiedendo pure di iniziare prima del solito orario riservato agli headliners. Evviva nonno Ozzy! Lo show ha sicuramente dato lustro al Festival, con un set, se vogliamo breve (la forma fisica del leggendario mangia - pipistrelli lascia piuttosto a desiderare) ma che in fondo a reso tutti ampiamente soddisfatti, dopo un'ora e mezza scarsa di puro divertimento. La sua figura, goffa, saltellante, con evidenti problemi motori, la sua voce stridula incitante e le sue solite urla (“I caaaan’t fuckin’ heeear you!!”) ripetute all’infinito; a noi son valse da sole il prezzo del biglietto. Per buona pace di quelli che si lamentano che in fondo, Ozzy “canti” ben poco durante lo spettacolo. Il concerto più pazzo di tutto il festival fila via dritto fra i grandi successi della sua carriera solista, da "Mr. Crowley" a "Bark at the Moon", fino a "Crazy Train" e "Mama, I'm Coming Home", con il pubblico in delirio, ai piedi di “Ossy” (come da pronuncia scandinava). In questa miriade di perle dal passato, non possono mancare pure i classici del suo periodo Sabbath: "Rat Salad" e "Fairies Wear Boots", mentre sembra dimenticarsi del tutto della recente uscita di "Scream". Gus G (già nei Firewind e Dream Evil) fa il suo compitino (un lavoro sicuramente non semplicissimo…) e si ritaglia un po’ di attenzione in più durante al suo assolo. Nessun accenno a Zakk Wylde. Scarsissima la coreografia: nessun esplosione, fuochi d’artificio e giochi di laser inesistenti, ma a noi basta veder zompettare in maniera scomposta una delle leggende ancora viventi. Il classicissimo finale "Paranoid" ed il principe delle tenebre chiude i suoi ottanta folli minuti, passati ahimè in un lampo. Forse l’assegno miliardario sborsato dall’organizzazione svedese avrebbe meritato qualcosa di più. Invece è già tempo di calare il sipario su queste edizione del festival. Personalmente questa botta di adrenalina ci ha sicuramente addolcito il boccone amaro della fine della festa!
Sotto al tendone del backstage bar c'è spazio per un ultimo affollatissimo party, c'è tanta voglia di fare festa e poca di tornarsene a casa, nonostante le energie (soprattutto quelle fisiche) oramai siano scarsissime. La stanchezza diluisce un po' la delusione per la chiusura del festival e per le giornate di vacanza giunte oramai al termine. Il bilancio ancora una volta è assolutamente positivo, per cui, come oramai diciamo da anni, questo è solo un “arrivederci”al prossimo anno. Il numero 21 equivale alla maggiore età, chissà cosa ci riserverà la ventunesima edizione dello Sweden Rock. Nel dubbio, la settimana che terminerà il 10 Giugno 2012 nel nostro personalissimo calendario è già ben che segnata e prenotata. Non potremo esimerci dal farci trovare pronti fra le colline e i verdi prati del giardino delle meraviglie di Norje!
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