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Recensioni: Where The Sun Comes Down "Ten Years Like in a Magic Dream"
Recensioni: Paolo Siani ft Nuova Idea
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SOUNDGARDEN + Refused + The Afghan Whigs + The Gaslight Anthem Arena Fiera Milano 4 Giugno 2012
Torino, Stadio delle Alpi, 27 giugno 1992, l’evento dell’anno: i Guns n’ Roses, all’apice del loro successo tutto facce gonfie da abuso alcolico, hard rock intinto nelle ombre del fratello perverso dello Zio Tom, sesso da porno movie di contrabbando. Ad aprire le danze serpentine di Axl Rose e soci vi erano, accanto ai Faith No More, proprio i Soundgarden freschi della pubblicazione del loro colosso commerciale, “Badmotorfinger”. Look cristico di un Cornell a torso nudo, suoni impastati affinché i settantamila spettatori non si accorgessero del gap qualitativo che separava l’antipasto da quello che, ai tempi, doveva essere il piatto più saporito. Avevo quattordici anni appena compiuti e, da quel momento, mi ritrovai nel groviglio sonoro di una band che prese per mano la mia adolescenza. “Louder Than Love”, “Badmotorfinger” e “Superunknown” sono tante piccole e grandi metafore di lunghi viaggi in bus verso scuola con l’angosciato timore dell’interrogazione di greco a sorpresa, della complicità tra amici “grungettari”, dei voli mentali verso Seattle e di quelli fisici, tangibili verso Londra o, molto più modestamente, verso il Balon, il mercato per eccellenza di Torino, ai tempi agghindato da “Seventies Renaissance”. E poi frammenti di amori non riusciti (love’s “Like a Suicide”) o di eclatanti manifestazioni di improbabile romanticismo (“Blow Up The Outside World”). A costo di sembrare fortemente retorico o, peggio ancora, diabetico, mi piace cominciare questo live report con l’effetto-nostalgia. Perché spiega perfettamente cosa rappresentano i Soundgarden per me, in primis, e per la maggior parte di quei trenta-quarantenni che hanno riempito la venue scarsamente suggestiva (il classico parcheggio asfaltato, che minaccia insolazioni a tutto spiano al primo gran caldo) dell’Arena Fiera Milano di Rho. La capacità di coniugare ombrose, cervellotiche sonorità metal al limite della patologia psichiatrica - l’abusata formula del confine labile tra genio e follia - con la delicatezza dell’introspezione, del sentimento che parla a voce bassa, della voce che coniuga l’urlo metropolitano al tempo della sussurrata dolcezza nordica. Sensazioni che si rispecchiano nell’atteggiamento distaccato, eremitico, dei quattro musicisti di Seattle, esplosivi durante la composizione artistica dei brani, irritanti per la loro riluttanza comunicativa. Album che hanno segnato il percorso del rock, fino a quel “Down On The Upside”, elegante ma troppo fighettino, oltre al quale i Nostri non hanno più avuto voglia di spingersi. Una tournée di basso profilo – Anno Domini 1996, tappa milanese sottotono, special guest: uno sconosciuto Moby (!!!) – e lo split inevitabile. Il rockettino degli Audioslave per il borghese che ha voglia di sentirsi trasgressivo ma per una sera soltanto, la carriera solista di Chris Cornell, da Jeff Buckley (“Euphoria Morning”) a Justin Timberlake (“Scream”).
L’addetto a pulire il palco con
l’aspirapolvere è l’unica nota di colore di un cambio di palco talmente
repentino, da lasciare inebetito il pubblico quando il telone retrostante la
batteria mostra la scritta “Soundgarden” e l’intro psichedelico di “Searching
With My Good Eye Closed” sancisce ufficialmente il fidanzamento serale tra gli
eroi di Seattle e Milano. Tutte quelle metafore adolescenziali di cui sopra si
stipano l’una accanto all’altra dentro un contenitore mentale che riscopre
“quelle canzoni là”. Se Kim Thayil e Ben Shepherd paiono mostrare i segni degli
anni che passano, Matt Cameron, stakanovismo doc tra Pearl Jam e Soundgarden, e
Chris Cornell sono terribilmente giovanili. Giovani nel senso pieno, luminoso,
positivo della parola. Entrambi vestiti di bianco, catalizzano l’attenzione
principale dei fans. Chris è in forma smagliante, ostenta una voce veramente
potente e in grado di riproporre le urla dei tempi che furono, al di là
dell’evidente aiuto fornito da un microfono astutamente effettato. È sorridente,
coinvolto dall’evento, con il suo classico sex appeal che suscita in tutti noi
maschietti una profonda, irritante invidia. I tempi del Justin Timberlake
lifestyle sono nascosti opportunamente nello sgabuzzino di casa. Qui c’è solo
tutta la potenza proteiforme, cervellotica, fagocitante di quel “giardino del
suono” che ha mischiato, nel corso degli anni, il metal all’hard rock, i suoni
spiraliformi alla Led Zeppelin con le ballad delicate di sapore Beatles. La
setlist, che segna il nostro destino temporale dalle 21,30 alle 23,30, è
semplicemente mastodontica. È mastodontica, perché ignora ogni rimando
commerciale – eccezion fatta per una “Live To Rise” eseguita a mo’ di sciroppo
per la tosse e una “Black Hole Sun” che proprio “s’ha da fare” per ragioni
storiche – e si concentra sui brani più artisticamente significativi dei
Soundgarden. L’intera arena accompagna Cornell durante il ritornello di “Spoonman”,
ripensando a quel pazzoide che produceva suoni allucinanti con i soli cucchiai
(vedi video ufficiale), poga sfrenatamente con “Gun”, riprodotta in tutta la sua
violenza fisica e thrashy, e con “Hunted Down”, addirittura ripescata dal
meravigliosamente grezzo Ep “Screaming Life”. Le chitarre liquide di Thayil e i
suoni misantropici di Shepherd innalzano il muro sonoro di “Outshined” e “Ugly
Truth”, sul cui andamento cadenzato irrompe l’urlo preciso, passionale di
Cornell. E così ci ritroviamo a saltellare senza tregua mentre schizza dal palco
“My Wave”, aspettiamo di gridare all’unisono “Loud Love” dopo che Cornell,
muovendosi sinuosamente, canta la prima strofa su un tappeto di suoni
psichedelici, visionari, erotici. La tradizionale scarsa comunicazione con il
pubblico viene mantenuta. Ma poco importa. Conta soltanto la qualità di una
ventina di perle musicali, che hanno raffigurato nel cielo per anni il concetto
di “grunge”. Se nell’insieme prevale il lato più metallico e meno commerciale
della discografia dei Soundgarden, toccante risulta la doppietta “Fell On Black
Days” e “Blow Up The Outside World”: la prima mantiene il suo taglio dimesso, la
sua triste malinconia di fondo, quel flavour dark e introspettivo che inserì
“Superunknown” nella lista degli album che sanno veramente cos’è l’autunno, la
seconda invece è pura passione che trabocca in ogni dove, in virtù del continuo
saliscendi emotivo che si esplica nel gioco strofa melodica-ritornello urlato.
Talmente passionale che il pubblico ha difficoltà a smettere di intonare il
refrain da cuore spezzato, tanto che Cornell – divertito - lo prosegue al di là
della canzone stessa. Difficile trovare dei punti deboli nella prestazione della
band di Seattle; in particolare – oltre alla più volte menzionata voce di Chris
– spicca il lavoro alla batteria di Matt Cameron, protagonista indiscusso di una
“Rusty Cage” strenuamente impegnata a ottenere la palma di migliore song della
serata. Si balla sfrenatamente, ci si dimena, si urla, fino a quando il break
doom centrale la riveste di magniloquenza soffocante. Un boato collettivo
accoglie poi “Superunknown” e “4th Of July”, quest’ultima, nella sua dimensione
strascicata, dolorosa e lenta, viene accompagnata da immagini suggestive sul
gigantesco schermo retrostante al palco. C’è da dire che, a lungo andare, il
pubblico si affloscia un po’ e questo è motivo di irritazione per il mio vicino:
“Meriterebbero 120.000 persone, ma l’Italia è un paese senza speranza”, esclama
furioso. Al di là delle note di colore, si arriva dopo quasi due ore di concerto
ai due bis che chiudono l’evento: l’attesissima “Jesus Christ Pose”, durante la
quale Cornell ripropone con le braccia la croce cristica, e i dieci minuti
deflagranti di “Slaves & Bulldozers”, la summa di tutto ciò a cui finora abbiamo
assistito. La mia gola non riesce a star dietro al crescendo “now I know why you’ve
been shaking”; Chris riesce, invece, ad avvicinarsi al crescendo indemoniato
presente nella studio-version. Classe 1964. L’intreccio di distorsioni,
l’avvitamento su di sé del mood elettrico, la distruttività quasi tribale della
batteria chiudono il pezzo e il concerto. I nostri si congedano sorridenti dal
pubblico. L’idea è quella di aver rivisto all’opera una band che, scritta la
storia vent’anni fa, è in grado di reinterpretarla, di riprodurla con quella
debordante vitalità di cui sono sempre più prive tutte queste attuali band,
votate al videoclip, all’immagine chic tramite Instagram, ma senza contenuto
alcuno.
SOUNDGARDEN SETLIST:
ENCORE:
testi di
foto di
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